
I martedì del Consiglio di Direzione e la comunità bertoniana.
Carissimi,
felici per la ripartenza di questo attesissimo nuovo anno scolastico, carichi di entusiasmo per la gioia di rivedere i tanti volti amati e la voglia di allacciare nuove relazioni, i membri del Consiglio di Direzione sono lieti di condividere con tutti voi la presente iniziativa nella speranza che, fin da ora, venga vissuta come una buona abitudine comunitaria.
Ogni martedì mattina il Consiglio di Direzione della scuola si riunisce al suono della campanella: i ragazzi sono in classe, le lezioni prendono avvio e se la gestione della vita quotidiana dei diversi ordini è pianificata dal meticoloso lavoro dei coordinatori educativo-didattici di ogni ordine, è fondamentale, oltre a questo, un confrontocostante su temi, urgenze, proposte e stimoli educativi che riguardano la scuola di oggi, spesso in affanno a restare al passo con la velocità del mondo moderno.
Ecco, dunque, l’iniziativa: ogni settimana condivideremo con tutti voi i nostri temi di discussione, offrendovi spunti di riflessione che possano aiutarci a rendere il nostro Istituto una comunità educante attenta e credibile.
DAD (Didattica a distanza): arrembaggio dello scorso anno scolastico o sistema strutturato a regime? Accorato è l’appello del professor Maragliano che invita addetti al lavoro e non a rendersi conto che l’utilizzo del digitale nella didattica non è la scialuppa di salvataggio nella bufera dell’emergenza Covid, ma strumento di reale e comprovato apprendimento (e-learning) che supera le distanze fisiche e offre tutte le sue potenzialità soprattutto in aula.
Le zone franche devono fare da apripista al Paese: con coraggio, allora, facciamo fare alla scuola il salto di qualità.
Piante in classe, tra banchi e sedie, hanno un effetto significativo sulla salute degli alunni: diminuiscono sensibilmente mal di testa, mal di gola e scemano anche i sintomi del raffreddore. È questo il risultato di uno studio condotto in Norvegia qualche anno fa.
Il saggista Stefano Mancuso, che è anche docente universitario di arboricoltura, in questo articolo non si limita a riportare i dati statistici dei norvegesi, ma condivide la sua esperienza: già vent’anni fa aveva constatato in una scuola elementare, arredata con piante, che i bambini erano in grado di risolvere un test di attenzione in tempi più brevi.
Al di là della comprovata azione terapeutica del verde, Mancuso lamenta, non senza una vena di tristezza, che negli istituti scolastici e nelle università italiane manca la cultura del vegetale e che se qualche aula è abbellita da qualche sparuta piantina, ciò è solo grazie a qualche insegnante sovversivo. Vige, insomma, nel Bel Paeseun’inflessibile disciplina anti-vegetale.
Stefano Mancuso non ci sta e, provocatoriamente, ci ricorda che non è necessario il Recovery Fund per migliorare l’esperienza scolastica dei nostri studenti: basta un fiore.
Rivoltella, professore di Didattica all’Università Cattolica di Milano, legge La vita dopo la pandemia, una piccola edizione della Libreria Vaticana che raccoglie otto brevi scritti dal Papa generati da occasioni pubbliche in piena pandemia, e si lascia affascinare. Traduce i pensieri di Francesco in quattro pennellate che, sapientemente armonizzate su una tela, dipingono il sogno della scuola del futuro:
Immaginare è andare oltre e ce lo insegna bene Leopardi che oltrepassa con la menteil limite visivo della siepe. Immaginare è trascendere, aprirsi all’infinito al punto tale che per poco il cor non si spaura.
Il possibile, invece, è ciò che percepiamo: non è né l’utopico né il fantastico.
Se nell’affrontare il possibile fossimo capaci di andare oltre, di immaginare e, di conseguenza, comunicare in maniera sempre diversa ciò che possediamo, ecco che, secondo Rivoltella, la nostra didattica non sarebbe ripetitiva, ma sempre nuova e, dunque, poetica poiché generativa.
Il lockdown ci ha sbattuto in faccia una triste verità: il divario digitale non è una condizione solo dei Paesi poveri.
Il divario digitale, infatti, non è unicamente la mancanza di strumenti di lavoro, ma anche possederli e non disporre, ad esempio, di connessione (divario tecnologico); è ancora un divario alfabetico: si possono avere connessione e strumenti, ma non saper dialogare con questi, poiché usare il digitale non può essere unicamente accendere, spegnere e cliccare. Il divario digitale, infine, può essere un divario culturale: l’alfabetismo funzionale deve fare i conti con la sociomaterialità.
Certo, durante l’emergenza è parso subito evidente che le tre dimensioni del divario digitale colpissero maggiormente le persone più povere, ma se la scuola vuole essere davvero inclusiva, può immaginarsi senza una tecnologia?
Il mondo contemporaneo non contempla il fermarsi e ce lo ha chiaramente dimostratoanche il lockdown: benché chiusi in casa, la tecnologia ci ha chiesto la stessa velocitànelle risposte se non addirittura un’ulteriore accelerazione. La velocità non ci lascia il tempo di entrare nella profondità delle cose e se siamo diventati bravi con i pensieri veloci, non siamo più in grado di concentrarci e cogliere l’essenza del mondo intorno a noi. Questo è un guaio poiché i dati andrebbero processati sia con i pensieri veloci che con quelli lenti.
Questo rischio si traduce a scuola non solo nel restare ingabbiati nelle tante cose da fare e nelle scadenze, ma anche nel rincorrere il programma: che fine ha fatto la contemplazione? Riusciremo mai a ristabilire un equilibrio tra vita attiva e vita contemplativa?
I teorici della comunicazione ci invitano a pensare ai media come un ambiente per il quale si impone una coscienza ecologica definita ecologia mediale.
Se l’ambiente naturale chiede di non produrre in eccesso, di evitare ogni tipo di inquinamento, compreso quello acustico, l’ambiente-media esige lo stesso rispetto: non ingolfiamo di messaggi la vita dei nostri ragazzi; educhiamoli al valore del silenzio e del vuoto: insegnano l’ascolto e la riflessione.
È importante che la scuola liberi e non saturi.
La penna così delicata, ma allo stesso tempo diretta di D’Avenia, in questo editoriale ci interroga come adulti, genitori e insegnanti.
Cosa pretendiamo dai nostri ragazzi? Che siano come noi vorremmo o, peggio ancora, che diventino ciò che noi avremmo voluto essere?
Confondiamo la felicità con la perfezione, non ammettiamo né cedimenti né cadute, temiamo la delusione per paura che si palesi come specchio dei nostri errori.
È vero: i figli spesso disattendono aspettative e desideri dei genitori, come quelle degli insegnanti ma, insiste D’Avenia, hanno il grande pregio di renderci liberi, liberi di amarli veramente, non per quello che hanno e fanno (per noi), ma perché ci sono.
E come un genitore, anche l’insegnante è chiamato nella sua professione a prendersi cura della vita integrale di ogni ragazzo perché insegnare è anche, o soprattutto, educare.
Ciò che l’insegnante chiede ad un ragazzo, allora, non può essere unicamente istruzione e prestazione: questa didattica svilisce il concetto di apprendimento e non ha nulla a che fare con la cura della vita integrale. Un vero maestro è colui che riesce a fare in modo che lo studente faccia suo ciò che il maestro ha già fatto suo e ciò si realizza solo dentro un canale relazionale aperto: il maestro innesca e lo studente si accende.
Niente porta un ragazzo a migliorarsi più di sentirsi amato per come è.
A martedì prossimo!
don Pasquale Cavallo
Fratel Adriano Baldo
prof. Gabriele Ragogna
prof.ssa Antonella De Bortoli
prof. Max Fassetta
prof.ssa Giovanna Zanella
prof.ssa Maria Simonini