I martedì della Direzione 22/12/2020

I martedì del Consiglio di Direzione e la comunità bertoniana

(Ordine del giorno: Parte prima (gestione del quotidiano con uno sguardo verso il futuro) – 1. Natale: gli studenti e le famiglie 2. Lezione a distanza: il benessere degli studenti 3. Studenti in “laboratorio digitale”: un nuovo ambiente per la video-registrazione4. Il Bertoni: dal docente alla rete: incontro, dialogo con colleghi vicini/lontani di altre scuole.  Parte seconda (formazione) – 5. Rassegna stampa: aggiornamento permanente della comunità bertoniana).

«Non ci sarà nessuna generazione Covid a meno che gli adulti e, soprattutto, gli educatori non insistano a pensarla e a nominarla così lasciando ai nostri ragazzi il beneficio torbido della vittima: quello di lamentarsi, magari per una vita intera, per le occasioni che gli sono state ingiustamente sottratte.Coraggio ragazzi, siete sempre in tempo anche se siete in ritardo! È, in fondo, nella vita, sempre così per tutti: siamo sempre ancora in tempo anche se siamo sempre in ritardo.»

                                                                                            (Massimo Recalcati, 2020)

 

Avvento di Alessandro D’Avenia (Corriere della Sera, 2 dicembre 2020);

Benedikt, protagonista del romanzo Il pastore d’Islanda (di Gunar Gunnarsson, Iberborea   2020), è un povero contadino che, se il tempo lo permette, la prima domenica d’Avvento si mette in viaggio per recuperare le pecore smarrite prima che arrivi l’inverno più gelido: «Dovevano morire di freddo e di fame solo perché nessuno aveva la voglia o il coraggio di cercarle e riportarle a casa? Erano pur sempre esseri viventi. E Benedikt aveva una specie di responsabilità nei loro riguardi». 

D’Avenia ci ricorda che ogni festa che si avvicina si annuncia con un rituale che gli uomini amano ripetere: per Benedikt, il rituale che precede il Natale, l’Avvento, appunto, è partire, avventurarsi alla ricerca delle pecore da salvare.

Il termine Avvento ha la stessa radice di avventura: Adventus infatti (da advenio, da cui il nostro avvenire) era l’incontro/scontro con qualcosa di straordinario che un uomo medievale, a seguito delle sue avventure nella selva (della vita), finalmente raggiungeva per diventare cavaliere: un evento tale da far morire il vecchio io e farne nascere uno nuovo, così come accade nei momenti chiave della nostra esistenza.

Se, dunque, ogni Avvento mira ad un Natale, come sostiene D’Avenia, se intraprendere un’avventura può farci davvero rinascere come uomini nuovi, c’è da chiedersi quanto siamo consapevoli del fatto che fuori dal nostro mondo autoreferenziale esiste pezzettino di mondo ferito o semplicemente dimenticato e quanto siamo disposti a rischiare.

La Notte di Natale è alle porte e ci interpella. Seguiamo Benedikt, camminiamo sulle sue orme senza indugi; per noi sarà  più facile: Benedikt, in fondo, come Gesù, ci ha già tracciato il percorso.

Il pranzo di Natale di Alessandro D’Avenia (Corriere della Sera 14 dicembre 2020);

L’articolo in questione è un pezzo delicato che entra in punta dei piedi nei cuori: D’Avenia non si limita a prendere spunto dal romanzo  La festa di Babette di Karen Blixen (1950) per offrirci le sue riflessioni, ma ci racconta la vicenda dall’inizio alla fine, senza risparmiare dettagli e particolari.

La trama (che non vogliamo appunto svelare) è chiara e parla da sé: un pranzo non è mai un meccanico e vuoto consumo di cibo, ma è luogo d’incontro, e il pranzo di Natale è un luogo d’incontro speciale.

Lo sa bene Babette che, grazie alla sua cucina, riuscirà a fare in modo che gli abitanti di paesino, provando sapori curati e nuovi, vedano i loro cuori, induriti dal gelo del clima e delle loro relazioni, finalmente sciogliersi.

«Il sentirci fragili alla fine ci aiuterà a riscoprire gli altri» di Walter Veltroni (Corriere della Sera 20 novembre 2020);

Walter Veltroni intervista il rabbino Benedetto Carucci Viterbi, preside del liceo ebraico Renzo Levi di Roma, coordinatore del collegio rabbinico italiano, docente di pensiero ebraico presso il diploma universitario triennale in studi ebraici dell’Ucei.

Veltroni lo definisce un  uomo aperto e profondo, che sa scegliere le parole, che non frequenta la banalità, che ha coscienza del cammino umano e gli rivolge queste domande:

Carucci, cosa le sembra stia succedendo nell’animo degli uomini per effetto della pandemia?

L’uomo si è scoperto ben più fragile di quanto pensasse di essere, e questo sembra tutto sommato un risultato non del tutto negativo. La fragilità umana è portatrice di riflessione e può regalarci un diverso punto di vista sulla vita: riconoscerla ci permette di comprendere l’esistenza in una prospettiva più sana e ci apre alla capacità di trasformazione.

Come è cambiata la relazione con l’altro?

Abbiamo dovuto ridefinire i concetti di lontananza e vicinanza: Chi ci era vicino, fuori della famiglia, è diventato lontano; chi ci era magari lontano, pur familiare, è ridiventato vicino, ma siamo mai stati davvero vicini all’altro? Il timore è che in questa seconda fase, più critica, meno tollerante e riflessiva, il processo di identificazione si trasformi in una deriva identitaria esclusiva ed escludente: siamo passati dal canto collettivo sincronizzato al sospetto per il vicino.

E quella con il tempo?

Il lockdown ci ha collocato in un presente di spessore infinito. Ora siamo ripiombati nel tempo feriale, in una frenesia che forse ruota su se stessa, per molti con l’angosciosa sensazione di una assenza di prospettiva per il futuro: il passaggio è dal tempo senza dimensioni a quello circolare che si illude di linearità.

Gli ebrei, e non solo loro, hanno, con Auschwitz, avuto a che fare con l’interrogativo sulla giustizia di Dio. In condizioni storiche del tutto differenti non si pone, pensando agli anziani che muoiono da soli, lo stesso quesito? Dio e l’agire degli uomini… Prendersela con Dio è facile per gli uomini, un gigantesco alibi.

Il rabbino pensa  che la vera domanda non sia mai dove è Dio nelle vicende umane, quanto piuttosto dove è l’uomo nelle vicende umane. È all’uomo — uscito alla sua origine dal giardino dell’Eden e dalla condizione paradisiaca privilegiata — che è data la possibilità, e il dovere, di affrontare ciò che gli accade e di trovare le chiavi e le forme per tentare di evitare il dolore, le catastrofi — anche quelle naturali — le difficoltà.

La scienza può bastare per fronteggiare questa catastrofe?

La scienza ha sicuramente un ruolo fondamentale ma non esclusivo: niente basta da solo.

Come impegnare il tempo reso disponibile dall’isolamento?

Dedicandosi un po’ al silenzio, che è la forma privilegiata per esprimere l’accettazione degli eventi.

L’altro è il nemico, il rischio?

L’altro non è il nemico, è colui che aiuta a definirmi: senza il tu della relazione non c’è io completo. Nel racconto biblico ‘ish, uomo, compare solo dopo ‘ishah, donna: l’uomo riesce a dire di essere tale solo quando vede di fronte a sé l’altra. Senza alterità non c’è ancora identità personale: è nel limite del volto altrui, irriducibile al mio, che comprendo di essere e di avere un confine che mi identifica.

Cosa è la normalità che oggi ci manca?

È vedere la bocca degli altri che, più degli occhi è la porta per comprenderne i sentimenti e le reazioni. È stringere le mani ed abbracciare. È il passeggiare senza meta di notte per le strade e le piazze. È immaginare un futuro, anche immediato, possibile e vivibile.

«Andrà tutto bene» era una pia illusione?

Era una pia illusione, come tutti gli slogan che semplificano.

I social e l’apertura all’altro. Le sembra siano uno stimolo o una gabbia?

Possono essere una vetrina che consente l’esibizione di sé ma ingabbia e non è valicabile, come tutte le vetrine che chiudono uno spazio. Sono, tuttavia, un potente canale di comunicazione, sempre aperto e a disposizione.

Cosa è la solitudine nella sua cultura?

L’ebraismo è in linea di massima fondato sulla dimensione collettiva anche se nei momenti costitutivi della loro esistenza Abramo, Isacco e Giacobbe e Mosè erano da soli; lo è il credente di ogni generazione: una solitudine speculare a quella di Dio stesso, con il quale si apre la possibilità dell’incontro: la scommessa  da giocare è quella di non trasformare la solitudine in individualismo.

Si può vivere senza speranza?

Non si può vivere senza speranza ma non si può vivere solo di speranza: questo ci aiuta  ad essere lucidi nel guardare la realtà senza autoinganni.

Il passo della Torah che le sembra più adatto per questo momento.

È il primo verso del Levitico, all’apparenza solo informativo: “Ed il Signore chiamò Mosè e parlò con lui dalla tenda dell’incontro dicendo”. In queste poche parole c’è tutta la forza e la necessità di incontrarsi intenzionalmente ed individualmente. Incontrarsi è un atto volontario, generoso e di vicinanza, non casuale: è sempre un appuntamento. 

Epilogo di Papa Francesco (Ritorniamo a sognare: la strada verso un futuro migliore, 2020);

Affidiamo alle parole di Papa Francesco la chiave di lettura e il messaggio di speranza di questo delicato momento storico.

Quando senti lo strappo, fermati e prega. Leggi il Van­gelo, se sei cristiano. O fai spazio dentro di te e ascolta. Apriti… decentrati… trascendi. E poi agisci. Chiama; vai a vedere; offri il tuo servizio. Di’ che non sai niente di quello che fanno, ma che forse puoi dare una mano. Di’ che vorresti contribuire a far parte di un mondo diverso e hai pensato che quello potrebbe es­sere un buon punto di partenza.Voglio concludere con una poesia che ho letto quando ero in isolamento. Me l’aveva inviata un amico dall’Argen­tina. Dell’autore non si sapeva molto; poi ho scoperto che è un attore e comico cubano. Quando ho parlato al tele­fono con Alexis Valdés, mi ha detto di aver scritto Espe­ranza tutta di un fiato, senza cambiare una parola, quasi che Dio stesse usandolo come un canale. 

È diventata vi­rale, ha commosso molti, e anche me.

Quando la tempesta passa//e le strade sono domate,//e noi siamo sopravvissuti a//un naufragio collettivo.//Con un cuore piangente//e un destino benedetto//ci sentiremo felici//solo per essere vivi.//E daremo un abbraccio//al primo sconosciuto.//E loderemo la fortuna//di conservare un amico//E poi ricorderemo//tutto ciò che abbiamo perso//E impareremo finalmente//tutto quello che non avevamo imparato.//Non saremo più invidiosi//perché tutti avranno sofferto.//Non saremo più pigri.//Saremo più compassionevoli.//Ciò che appartiene a tutti varrà più di//quanto non abbiamo mai raggiunto//Saremo più generosi//e molto più impegnati.//Capiremo quanto sia fragile//essere vivi,//suderemo l’empatia//per chi c’é e per chi se ne andato.//Ci mancherá il vecchio//che chiedeva un soldo nel mercato.//Che non sapemmo mai il suo nome//e sempre stette al tuo fianco.//E forse il povero vecchio//era il tuo Dio camuffato.//Mai domandasti il nome//perché andavi di fretta.//E tutto sará un miracolo//e tutto sará un’eredità//e la vita//la vita che abbiamo mantenuto sarà rispettata.//Quando la tempesta passerà//chiederò a Dio, scusa,//chiederò di restituirci migliori,//come ci avevi sognato.

                                                                                            (Alexis Valdés, Esperanza)

 Arrivederci a gennaio!

                                                                            

                                                                                                    don Pasquale Cavallo

                                                                                                     Fratel Adriano Baldo

                                                                                                 prof. Gabriele Ragogna

                                                                                      prof.ssa Antonella De Bortoli

                                                                                                          prof. Max Fassetta 

                                                                                           prof.ssa Giovanna Zanella

                                                                                               prof.ssa Maria Simonini