Admiranda tibi levium spectacula rerum
…….dicam. (Georgiche, IV, 3)
“Ti parlerò degli stupendi spettacoli delle piccole cose”
Duemilanovantadue: tanti gli anni che ci separano da quel 15 ottobre del 70 a.C. che vide nascere, nelle fertili campagne mantovane, il poeta Virgilio.
Come in ogni occasione di questa ricorrenza, voglio dedicare una riflessione che permetta di soffermarci col pensiero su uno dei tanti messaggi che il vate latino ci ha lasciato. Diciamolo subito: comprendere Virgilio non è affatto semplice, richiede forse di assumere una sensibilità e un animo simili ai suoi; molto di ciò che l’autore ha scritto si presta infatti a un’interpretazione letterale apparentemente facile (egli non ama i sofismi retorici e l’oscurità ermetica) e a questo si aggiunge una sovrabbondante presenza di studi tecnici e il peso della storia che ha assegnato a Virgilio un ruolo onnipresente ma assai spesso condizionato dalla cultura, quando anche non dalla politica, del tempo. Se mi è permessa una battuta, la grande celebrità virgiliana non ha giovato all’autore, essa ha involontariamente semplificato (oppure, al contrario, appesantito di tecnicismi filologici) il significato autentico della sua poesia.
Il dono che vorrei lasciarvi, ricordando Virgilio, è quello di cogliere anche solo per un istante la ricchezza di significati che si cela nel verso da me citato delle Georgiche e che esemplifica tutta la poetica dell’autore. Come premesso, per comprenderlo dobbiamo entrare nell’anima del poeta: impresa complessa, se pensiamo che già i contemporanei di Virgilio vedevano in lui una creatura straordinaria ed eccezionale, quasi sovrumana; tuttavia non rinunciamo a questo tentativo.
Virgilio qui, rivolgendosi al grande e potente Mecenate, l’uomo di fiducia di Ottaviano che si accingeva a divenire imperatore proprio negli anni della stesura delle Georgiche, gli dice che vuole parlargli del mondo stupendo delle cose “lievi” (levium…rerum), aggettivo che per comodità ho tradotto “piccole” ma che, come sarà chiaro tra poco, assume ben altri e più ampi significati. Cerchiamo di immaginare il contesto reale in cui deve essere collocato questo verso: il poeta, venuto dalla campagna con la sua facies rusticana (“aspetto contadino”) ricordata dalle fonti, dalla precaria condizione socio-economica (anche a lui erano state strappate nel 42 le terre, nell’ambito delle confische agrarie decretate dal secondo triumvirato, terre poi restituite a quanto pare grazie all’intervento di Asinio Pollione a sua volta vicino all’ambiente di Mecenate e Ottaviano), il poeta il cui destino dipende tutto da un “sì” o da un “no” di Mecenate e del giovane princeps che sta al di sopra di lui, offre al suo potente protettore non un canto di gloria, un inno celebrativo, ma la promessa di descrivergli il fascino di ciò che è piccolo e umile. Potrebbe apparire come una contraddizione, per chi non conosce nel profondo Virgilio. Noi sappiamo però che da sempre l’animo virgiliano manifesta una sensibilità particolare e di intima adesione verso tutto ciò che, per usare suoi aggettivi, è tenuis, humilis, levis, subtilis: siamo nel rovesciamento dei valori del grande poema epico tradizionale che esaltava invece con magniloquenza i fasti degli eroi, le loro titaniche imprese, la forza, il coraggio, le avventure sovrumane, l’ardore bellico. In questo, Virgilio segue la poetica ellenistico-alessandrina che preferisce la poesia “leggera” (cioè incentrata su tematiche lontane dalla pomposità eroica) ma elegante e raffinata: lo stesso termine latino levis, infatti, corrisponde al greco leptòs su cui tanto medita Callimaco, il padre dell’estetica alessandrina. E quale significato racchiude a sua volta leptòs? Tale aggettivo indica ciò che è esile, delicato, di poco peso, fragile e tenue e allo stesso tempo elegante e prezioso proprio in virtù della sua leggerezza che gli permette di volare alto e di penetrare nell’anima, come un filo d’erba o una piuma. Ecco come può dunque apparire il verso delle Georgiche: io ti parlerò degli stupendi spettacoli delle cose eleganti nella loro delicatezza. Non ti dirò delle cose maestose, enormi, vistose: non vi è bisogno di un poeta, di un vero grande poeta, per celebrare queste ultime, anche un occhio inesperto le vede, anche un animo non troppo educato e raffinato le nota. La vera finezza spirituale, il sottile acume dell’intelligenza si esprimono semmai nel saper cogliere e apprezzare quello che agli occhi dei più è invisibile e spesso, purtroppo, insignificante: l’essenziale è invisibile agli occhi. Solo un animo privilegiato (non nell’accezione aristocratica del termine: intendiamo un privilegio di sensibilità) può vedere dove gli altri non vedono, può sentire voci nel silenzio, può percepire e tramutare in poesia l’impercettibile rete di misteriose corrispondenze della realtà, princìpi su cui si fonderà la poetica del simbolismo e di Giovanni Pascoli, grande conoscitore, direi persino alter ego moderno di Virgilio.
Nel valore del “piccolo” e del “lieve” c’è però anche una dimensione etica ed esistenziale, non solo estetica e poetica. Virgilio nasce contadino, matura le sue prime impressioni emotive (vera sorgente della sua poesia) tra i campi e la stalla; egli ben conosce l’improba fatica del lavoro della terra, la dura vita dell’agricoltore e ancor più del pastore; egli ha occhi che sanno commuoversi di fronte a un animale che soffre o a un fiore calpestato da un insensibile piede. E’ qui, nel piccolo mondo agreste e bucolico della campagna, che nasce l’ispirazione più profonda dell’arte virgiliana, non certo nelle biblioteche o nelle corti dove si magnificano le grandi sorti dei potenti o dove si celebra una poesia intrisa solo di erudizione e di ossequio arido alla tradizione libresca. Virgilio sente nel suo cuore la voce, spesso ignorata o soffocata, degli umili e degli ultimi che patiscono: i pastori e i contadini ai quali un “empio soldato” (Bucoliche, I) ha tolto con la violenza le terre, condannandoli a una vita di stenti e di paura del futuro; la capra che ha appena partorito e che deve abbandonare il suo cucciolo perché i prati su cui ha sempre pascolato cambieranno padrone (Bucoliche, I); il bue triste che vede crollare il fratello, morto di peste, sotto il peso del giogo (Georgiche, III). Molti altri esempi potrebbero essere citati a testimonianza della sensibilità empatica virgiliana verso gli esclusi e le umili creature: il maggiore fra tutti si ha probabilmente nel capolavoro dell’Eneide, il cui protagonista (più antieroe che eroe nel senso tradizionale del termine) è Enea, un profugo, uno sconfitto, trascinato su mare dalla sua Troia incendiata e distrutta alle coste del Lazio in cerca di una nuova patria. Virgilio assume il punto di vista dei vinti, non dei vincitori, dei dominati, non dei dominatori: il suo messaggio poetico, rivolto verso sfere metaterrene e profetiche, ci trasmette un annuncio messianico di pace, di giustizia, di liberazione dal male (in particolare Bucoliche, IV: la profezia del puer). E dunque, tornando al verso di dedica a Mecenate da cui siamo partiti, il poeta vuol dire al suo nobile e potente interlocutore (e con esso a ciascuno di noi) che l’universo dei “piccoli”, delle creature deboli e indifese, della natura così stupenda e al contempo così fragile, è lo spettacolo più stupendo che si possa presentare ai nostri occhi e al nostro animo. Sappiano Mecenate e il giovane Ottaviano, padrone di Roma e del mondo, capire e custodire questo prezioso universo.
Se tali “piccole cose” resteranno anche per noi, poiché magari richiamati da altri beni e lusingati dalle attrattive del consumismo, insignificanti oppure al contrario sapranno toccarci il cuore, indicherà verso quale indirizzo esistenziale vogliamo rivolgere la nostra vita.
Gabriele Ragogna